In periodi di campagna elettorale, torna in agenda l’eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive. Ma la necessità di garantire comunque un gettito equivalente rischia di far crescere il prelievo fiscale sul lavoro e di generare un conflitto distributivo tra diverse categorie di contribuenti e tra Stato e Regioni.

Si è riacceso il dibattito sull’eliminazione dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive.

L’Irap venne introdotta nel 1997 (con effetti per la prima volta sui redditi del 1998) come tributo regionale per il finanziamento della spesa sanitaria. Contestualmente vennero aboliti i contributi sanitari, la tassa sulla salute, l’imposta patrimoniale sulle imprese, la tassa di concessione governativa sulla partita Iva, l’Ilor e un tributo locale, l’Iciap.

Un tributo impopolare

Il nuovo tributo è risultato molto impopolare tra le imprese e gli altri soggetti passivi, perché è stato percepito come un’imposta sul reddito d’impresa, oltretutto non deducibile. Tuttavia, la sua base imponibile è molto più ampia di questo reddito, comprendendo anche salari e interessi passivi (e ciò ha consentito di contenere l’aliquota). Va anche ricordato che, tra le fonti di entrata soppresse, erano deducibili i contributi sanitari e l’Iciap, mentre l’Ilor e l’imposta patrimoniale non lo erano. La decisione di rendere l’Irap indeducibile dall’imposta sul reddito rispondeva essenzialmente all’obiettivo di preservare il prelievo dell’Irpeg per il bilancio dello Stato.

L’ostilità diffusa nei confronti del tributo ha trovato espressione nell’articolo 8 della legge delega di riforma fiscale, il quale impegna il Governo “(…) ad adottare uno o più decreti legislativi per la graduale eliminazione dell’Irap, con prioritaria e progressiva esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro e di eventuali altri costi (…)”.

Per discutere tale prospettiva, è utile richiamare qualche dato. Secondo le valutazioni della Commissione Gallo, nel 1996 il gettito complessivo dei tributi e contributi soppressi era stato di 35 miliardi di euro (esclusa la pubblica amministrazione). Se si tiene conto della possibilità di dedurre una parte di tale importo, il prelievo netto per lo Stato si riduceva a 25-26 miliardi di euro. Di tale somma, si può valutare che due terzi provenissero dalle società di capitale, un terzo da professionisti, imprese individuali e società di persone.

I dati di dichiarazione dell’universo dei contribuenti indicano, nel 1998, una sostanziale stabilità della composizione del gettito tra categorie di contribuenti. Tuttavia, il gettito complessivo dell’Irap risultò intorno a 20 miliardi di euro (sempre escludendo la Pa). Dunque, l’introduzione del nuovo tributo condusse nell’insieme a un rilevante alleggerimento fiscale, anche se non mancarono casi di aggravio per singoli contribuenti con particolari strutture dei costi. La composizione del prelievo non mutò a danno di particolari categorie.

Ma sostituirlo non è indolore

Esaminiamo ora i possibili effetti dell’abolizione dell’Irap, ipotizzando l’invarianza del gettito e dunque l’introduzione di un tributo sostitutivo. Secondo il ministero dell’Economia, nel 2003 il gettito dell’Irap dovrebbe attestarsi intorno a 31 miliardi di euro. Se il nuovo tributo da introdurre fosse fiscalmente deducibile dalle imposte sul reddito, l’invarianza delle entrate tributarie richiederebbe in realtà un obiettivo di gettito “lordo” più elevato, diciamo tra un quarto e un terzo in più del gettito attuale dell’Irap, in funzione della “capienza” dei redditi fiscalmente tassabili dei soggetti colpiti. Dunque, si dovrebbe puntare a raccogliere tra 37 e 40 miliardi di euro, riservando allo Stato quanto necessario per compensare la perdita di gettito per la deducibilità della nuova imposta.

Evidentemente, si tratta di un’operazione né facile né indolore. Se, come suggerito di recente dal presidente del Consiglio, tale somma dovesse provenire dalla reintroduzione dei contributi sanitari e della tassa sulla salute con un prelievo uniforme su 23 milioni di lavoratori dipendenti e indipendenti, su ciascuno di essi graverebbe un prelievo addizionale di oltre 1.500 euro. Si tratterebbe di una tassa sul lavoro, suscettibile di aggravare la disoccupazione e in aperto contrasto con gli obiettivi della legge delega. Se invece si ricorresse all’Irpeg come fonte sostitutiva, ciò richiederebbe il raddoppio delle aliquote attuali; il ricorso all’Irpef richiederebbe un aumento di un quarto dell’aliquota media effettiva sui redditi delle persone fisiche.

Tali cifre hanno solo valore indicativo, ma rivelano la complessità dei problemi da affrontare e, soprattutto, i conflitti distributivi che inevitabilmente si aprirebbero tra le diverse categorie di contribuenti e tra lo Stato e le Regioni. Davvero il Governo è disposto a incamminarsi su questa strada?

 

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