Le nuove norme su processo societario e mercato finanziario non rispondono appieno alla specificità della materia. Da criticare la scelta di rinunciare alla figura del giudice specializzato. Positiva invece la valorizzazione di forme di giustizia “privata”, anche se i costi elevati potrebbero limitare l’esercizio di alcuni diritti.

Sin dall’avvio del processo di riforma del diritto societario si era consapevoli che alla riforma del diritto sostanziale doveva corrispondere anche un rinnovamento delle regole processuali. Si trattava di una scelta persino ovvia: regole non accompagnate da meccanismi efficienti di risoluzione delle controversie e da una alta aspettativa dei soggetti interessati della loro tempestiva e corretta applicazione, perdono gran parte della loro efficacia.

In un quadro di crescente “concorrenza fra ordinamenti”, anche in ambiti a elevata armonizzazione del diritto sostanziale come quello comunitario, un sistema di risoluzione delle controversie di impresa ben funzionante rappresenta un decisivo vantaggio competitivo. Per contro, una macchina della giustizia civile inadeguata si traduce in costi per le imprese e per il sistema paese. Più in generale, la percezione che in un determinato mercato sarà difficile ottenere in tempi e modi ragionevoli la tutela dei propri diritti ha certamente un effetto frenante nelle scelte di investimento, anche nei mercati finanziari, pur in presenza di una adeguata normativa di carattere sostanziale.

Non solo tempi lunghi

Quando si parla di efficienza o inefficienza del sistema giudiziario, specie in materia di diritto d’impresa, non si deve pensare solo alle tradizionali lamentazioni sui tempi biblici della giustizia italiana. I nodi sono anche altri: raggiungere un corretto punto di equilibrio fra tempestività e accuratezza delle decisioni; prevedere strumenti procedurali “tagliati” sulla concreta tipologia delle controversie; disporre di soggetti giudicanti di adeguata competenza a fronte di un diritto commerciale di sempre maggiore complessità (per la moltiplicazione delle fonti e per le sue crescenti implicazioni internazionali, per esempio) e il cui ambito di applicazione ormai trascende ampiamente i rapporti fra le imprese per toccare questioni che riguardano la vita, le speranze, i progetti di ciascun cittadino (basti pensare al ruolo che il diritto dei mercati finanziari oggi ha nella tutela del risparmio diffuso, anche in chiave previdenziale). Solo giudici competenti possono fornire soluzioni rispettate, prevedibili e sulle quali si basino i comportamenti futuri dei soggetti interessati.

La riforma

In questo quadro si colloca l’attuale riforma del processo in materia societaria e dei mercati finanziari: sforzo apprezzabile ma che suscita più rimpianto per le occasioni mancate che soddisfazione per le soluzioni adottate.

Nel susseguirsi di progetti e commissioni della scorsa legislatura, la scelta originaria della commissione Mirone e della coeva commissione Rovelli puntava sulla istituzione di sezioni specializzate presso le sedi di Corte d’Appello, ovvero presso le sedi dove è maggiore la concentrazione di imprese. Strada, a mio avviso corretta e necessaria, per rispondere ai nodi appena indicati. Senonché, prima ancora del cambio di legislatura e prima che si insediasse la Commissione Vietti (che ha portato a compimento la riforma), un impeto bipartisan di tutela delle professionalità delle classi forensi dei luoghi che non avrebbero ospitato i giudici specializzati e, più sotto traccia, la diffidenza, anche interna alla magistratura, verso la possibile creazione di una classe giudicante di élite, sancirono la morte del giudice specializzato in materia commerciale.

L’attuale riforma ha confermato questa decisione e ha affidato il compito di migliorare l’efficienza del sistema sostanzialmente a tre strumenti:

riforma del rito con regole che dovrebbero consentire un accorciamento dei tempi delle decisioni;

introduzione di forme di decisione sommaria alle quali non deve seguire necessariamente, come adesso, un processo ordinario;

valorizzazione e apertura alla giustizia “privata” nelle forme dell’arbitrato e della mediazione a opera di enti pubblici o privati riconosciuti dal ministero della Giustizia.

Va detto che le scelte normative hanno un carattere spiccatamente generale: potrebbero essere in gran parte applicate al processo civile in genere, e infatti ricalcano progetti in materia elaborati da un’altra commissione governativa. Sembrano essere dunque una sorta di “apripista” per una riforma complessiva del processo civile: il che sottolinea ancor di più il sacrificio della specialità del diritto commerciale e di un sistema di risoluzione dei suoi conflitti.

Più in dettaglio, l’intervento sul rito è destinato a scontrarsi con le carenze organizzative. A parità di risorse e senza interventi sul piano dell’organizzazione della macchina giudiziaria, riforme di questo tipo sono inevitabilmente destinate a raggiungere risultati talvolta apprezzabili, ma parziali e non uniformi. L’istituzione delle sezioni specializzate avrebbe invece inciso sull’organizzazione degli uffici e avrebbe determinato una maggiore efficacia di queste innovazioni.

Valorizzazione di arbitrato e conciliazione

L’introduzione di procedimenti sommari “autonomi” è una novità sicuramente utile, adatta in particolare ad alcune tipologie di controversie, specie societarie: anche in questo caso, però, un giudice specializzato avrebbe potuto governare meglio uno strumento così delicato, e per certi versi sofisticato.

Quanto alla forte valorizzazione della “conciliazione” privata, essa segna un’importante apertura del nostro ordinamento ai sistemi di Adr (alternative disputes resolution) che si unisce al favore verso la forma tipica di giustizia “privata”, l’arbitrato. Sarebbe semplicistico ravvisare in queste scelte una volontà di “privatizzazione” del sistema di risoluzione dei conflitti in materia di impresa e di invito al mercato a organizzare da sé la propria giustizia.

La valutazione va diversificata. Il rafforzamento della conciliazione stragiudiziale e il suo affidamento a enti sottoposti a un controllo ministeriale è un dato positivo e può certamente portare a un salutare alleggerimento del carico delle controversie giudiziarie e al raggiungimento di soluzioni dei conflitti più efficienti. La sua fortuna dipenderà dalla diffusione in sede contrattuale dell’adozione di clausole che prevedano tali interventi e soprattutto dai costi di tale procedura.

Per l’arbitrato la questione è più delicata. La norma, ribadisce il limite delle controversie su diritti non disponibili e l’esigenza che gli arbitri decidano secondo diritto. Limiti opportuni, che vanno però attesi alla prova dei fatti: la riforma del diritto sostanziale societario ha aperto larghi spazi del diritto societario, specie in tema di organizzazione e di diritti dei partecipanti all’autonomia statutaria. Ciò potrebbe far rientrare nell’ambito dell’arbitrato controversie prima probabilmente riservate ai giudici, a tutela di interessi che trascendevano quelli propri dei soci e della società (si pensi alle impugnative di bilancio).Sarà importante vedere come sarà valutata l’apertura all’arbitrato per quelle controversie che possono toccare l’interpretazione e l’applicazione di norme di tutela del mercato. Si pensi, per esempio, alle regole in tema di offerta pubblica d’acquisto: possono dar luogo a controversie societarie che lo statuto potrebbe attribuire ad arbitri.

Per il momento, è da segnalare una singolare conquista della “giustizia” privata: la possibilità di vedersi attribuita la competenza di risoluzione dei contrasti fra i soggetti che hanno il potere di amministrazione sulle scelte di gestione. Infine, come è più della conciliazione, il problema dell’arbitrato è un problema di costi: la possibile sistematica attribuzione delle controversie societarie e in materia di mercati finanziari a una procedura tradizionalmente costosa (anche se normalmente più rapida) potrebbe rappresentare per soggetti economicamente deboli (soci di minoranza, risparmiatori) una remora alla difesa dei propri diritti.

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