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Più Europa per più democrazia

Se le decisioni di politica economica dell’area euro sono sbagliate o insufficienti, è anche perché sono inadeguate le istituzioni all’interno delle quali vengono prese. Troppo peso agli Stati e troppo poco agli organismi europei. Ricette per aumentare la democrazia e l’efficienza.

LA CRISI E L’EURO

Nel dibattito sull’euro si fa spesso un gran polpettone, mescolando argomenti diversi. Una cosa per esempio è chiedersi se conveniva all’Europa, o anche solo all’Italia, imbarcarsi nel 1992 nel processo che poi ha condotto all’adozione della moneta unica nel 1999, vista l’eterogeneità e le differenze, culturali non meno che economiche, che esistono tra i diversi paesi europei. Un’altra cosa è chiedersi nel 2014 se conviene uscire dall’euro, unilateralmente o perfino collettivamente, visto che costi e benefici nei due casi sono estremamente diversi. Allo stesso modo, si può benissimo ancora credere alla validità politica e economica del progetto europeo della valuta comune e avere invece un giudizio pesantemente negativo sulla conduzione della politica economica dell’area.
Del resto, sarebbe difficile esprimere un giudizio diverso. A sei anni dal crollo di Lehman Brothers, l’area euro è ancora attanagliata da problemi di bassa crescita, alta disoccupazione, rischi di deflazione, crollo degli investimenti, che non risparmiano nemmeno i paesi più forti. Il confronto con gli Stati Uniti, che pure erano entrati nella crisi in condizioni peggiori degli europei, è impietoso. Perfino per quello che riguarda la finanza pubblica, la situazione appare più stabile negli Stati Uniti, nonostante l’accento molto più forte messo in Europa sulla necessità di un suo riequilibrio. Ed è proprio l’incapacità dei paesi europei di rispondere in modo adeguato alla crisi, e l’abitudine dei politici nazionali di addossare all’Europa anche colpe non sue, che gonfia le vele dei vari antieuropeismi nazionali.
Perché si insiste su una politica economica sub-ottimale? Una risposta può essere semplicemente la bassa qualità dei leader europei e nazionali o i furori teutonici di Angela Merkel. Ma è una risposta parziale, perché i leader non decidono in astratto, ma all’interno di istituzioni che determinano in gran parte il risultato. Dunque, se le decisioni sono sbagliate o insufficienti, c’è il sospetto che siano quelle istituzioni a essere sbagliate o insufficienti. E uno sguardo all’assetto istituzionale dell’Unione Europea suggerisce che il sospetto sia fortemente fondato.

LA GOVERNANCE DELL’AREA EURO

Il compromesso sancito dal Trattato di Lisbona nel 2009, dopo il fallimento del progetto costituzionale europeo, ha istituzionalizzato un duplice metodo di governance dell’Unione Europea. C’è un metodo sovra-nazionale, basato sul circuito Commissione-Parlamento-Consiglio e sottoposto al controllo della Corte di giustizia europea, che si applica in sostanza alle materie condivise e collegate al mercato unico. E c’è un metodo intergovernativo, basato sul Consiglio europeo, istituzionalizzato appunto dal Trattato, che si occupa invece delle politiche economiche e finanziarie che rilevano per l’Unione, così come di difesa e politica estera, cioè dell’insieme di quelle materie su cui c’è necessità di coordinamento a livello europeo, ma che sono anche percepite come particolarmente sensibili per la sovranità nazionale. Qui le decisioni vengono prese sulla base della collaborazione volontaria tra i paesi e non c’è spazio per altre istituzioni comunitarie, se non per la Commissione in veste di supporto tecnico.

LE POLITICHE ECONOMICHE

Questo significa che tutte le decisioni rilevanti in merito alla governance economica dell’Unione Europea sono prese dal Consiglio europeo, o per i paesi euro, dall’Euro Summit, cioè da assemblee di leader politici nazionali sottoposti solo al controllo delle proprie opinioni pubbliche. E questo nonostante che la valuta unica sia per definizione un’istituzione sovranazionale. Nella crisi dell’euro, esplosa nel 2010 con il caso greco, tutte le decisioni rilevanti sono state prese da queste assemblee, spesso senza neanche informare le altre istituzioni europee o informandole solo a decisioni prese.
Il problema è che assemblee di questo tipo fanno fatica a prendere decisioni corrette su temi collettivi, soprattutto in tempi di crisi. In primo luogo, c’è un problema di timing. Le contrattazioni tra leader nazionali sono necessariamente lunghe e laboriose, spesso con un occhio alle elezioni locali prossime e venture, cosicché le decisioni vengono prese troppo tardi, quando c’è la percezione che non se ne possa più fare a meno. Anche se manca una prova controfattuale, è probabile che non avremmo avuto la crisi dell’euro, se le stesse decisioni prese per la Grecia dal Consiglio europeo nel 2012, fossero state assunte due anni prima.
Il secondo problema è la correttezza delle decisioni. Nei dibattiti intergovernativi, in assenza di regole decisionali ben definite, inevitabilmente tendono a prevalere le opinioni dei paesi più forti. Nel contesto europeo, questo ha fatto sì che gli interessi e la filosofia economica della Germania si siano imposti nel determinare l’orientamento della politica economica dell’area. Così, la politica economica è risultata eccessivamente recessiva, tutta centrata sul risanamento immediato e simultaneo delle finanze pubbliche nei diversi paesi, ignorandone gli effetti di spill-over, mentre invece è stata poco attenta, per esempio, ai problemi del risanamento del settore bancario, che si cominciano ad affrontare solo adesso. È esattamente l’opposto di quello che hanno fatto gli Stati Uniti nell’affrontare la crisi.

LEGITTIMITÀ E TRASPARENZA

Esiste, poi, un problema di legittimità democratica. Le opinioni pubbliche nazionali risentono l’intervento di governi di altri paesi, che non percepiscono come legittimati a prendere decisioni nei loro confronti, visto che non hanno contribuito a eleggerli. Nel contesto europeo, il problema ha generato una distorsione ulteriore. Per evitare che fosse direttamente il paese A a dire cosa fare al paese B, il compito del controllo e dell’attuazione delle politiche decise nel Consiglio europeo è stato assegnato alla Commissione. Con due risultati, entrambi negativi. Il primo è una perdita di legittimità anche della Commissione di fronte ai cittadini europei, in quanto si tratta ancora di un altro organismo non legittimato dal voto. Il secondo è che poiché i paesi stessi non si fidano della Commissione, il suo ruolo è stato minuziosamente definito fin nei dettagli dei vari trattati intergovernativi o sovranazionali che si sono susseguiti, onde ridurne al minimo il grado di discrezionalità. Ma così si è prodotto un ginepraio di regole fiscali totalmente incomprensibile per i cittadini, e in molti casi anche per gli stessi governi che dovrebbero applicarle.

COME NE USCIAMO

Se la diagnosi è corretta, è evidente che una soluzione strutturale al problema può essere trovata solo modificando i meccanismi decisionali europei, cercando di renderli più efficienti e democraticamente legittimati. Ci sono varie opzioni. In primo luogo, è ovviamente necessario che, quando si prendono decisioni che riguardano l’Europa, ci sia qualcuno al tavolo legittimato a parlare per conto di una constituency europea e non solo delle varie constituencies nazionali. Un presidente del Consiglio europeo esiste già, ma è una figura debole (neanche vota), nominata dagli stessi governi. Invece, un presidente eletto direttamente dai cittadini europei, sulla base di una chiara agenda politica e magari con un sistema di grandi elettori come quello statunitense per tutelare gli Stati più piccoli, avrebbe tutta la legittimità per confrontarsi alla pari con i leader nazionali e portare un punto di vista europeo nel dibattito. La dinamica politica nel Consiglio sarebbe completamente diversa.
Un’altra opzione è che sia il presidente della Commissione (magari fondendone il ruolo con quello dell’Unione) a essere direttamente eletto dai cittadini, anche se questo potrebbe confliggere con il ruolo “tecnico” della Commissione come guardiano dei Trattati.
A ogni modo, nella situazione attuale, va sicuramente apprezzata la decisione dei partiti europei di coalizzarsi nell’indicare un candidato comune alla presidenza della Commissione, piegando il braccio al Consiglio europeo. Non sarà molto, ma certo la maggiore legittimità del presidente rafforzerà il suo ruolo nelle contrattazioni future.
Ma un presidente eletto direttamente di per sé non è sufficiente. È necessario che cambino anche le funzioni e i rapporti di potere tra le varie istituzioni europee.
In particolare, è necessario che nelle decisioni che riguardano l’Europa, anche nell’area economica, sia coinvolta direttamente l’unica istituzione che è legittimata a rappresentarne i cittadini, cioè il Parlamento europeo. Anche qui sono possibili varie opzioni. In quella più squisitamente federale, il ruolo degli Stati nazionali nelle funzioni condivise è limitato alla loro partecipazione alla seconda camera legislativa, come il Senato americano o il Bundesrat tedesco, mentre il potere esecutivo è assegnato al presidente o al governo parlamentare, che però richiede solo la fiducia della prima camera. È quello che avviene in Europa per le politiche delegate all’Unione Europea, dove gli Stati si esprimono attraverso il Consiglio, i cittadini attraverso il Parlamento europeo e dove la Commissione ha il potere di iniziativa legislativa. La soluzione proposta dai federalisti europei è dunque quella di estendere il modello anche a tutte le altre funzioni, comprese quelle attinenti all’area economica, rendendo la Commissione un vero e proprio governo dell’Unione e legandolo a un rapporto fiduciario con il Parlamento europeo.
Se questa alternativa fosse irrealistica o troppo ambiziosa, o perché non sostenuta dai cittadini o perché gli Stati europei su funzioni percepite come cruciali per la loro sovranità intendono mantenere un ruolo esecutivo diretto – in altri termini se il Consiglio europeo è lì per restare -, è comunque necessario che il Parlamento europeo abbia una voce sulle decisioni che questo organismo prende. Per esempio, si potrebbe estendere il modello della co-decisione anche a queste politiche, con qualche soluzione tecnica per la legislazione d’urgenza e con un ruolo riconosciuto alla Corte di giustizia europea su quanto fatto dal Consiglio europeo. Il Parlamento dovrebbe anche avere potere di iniziativa legislativa su queste materie, non subendo dunque solo quanto deciso dal Consiglio europeo. E dovrebbe avere maggior autonomia sul bilancio europeo, anche a parità di dimensioni, per poter credibilmente proporre agende economiche alternative. Soprattutto, il Parlamento europeo dovrebbe avere la possibilità di bloccare la stipula di trattati intergovernativi al di fuori dei Trattati dell’Unione, come invece hanno fatto i paesi durante la crisi dell’euro, appunto per evitare la tutela degli altri organismi europei. A questo proposito, si osservi che quando il Parlamento europeo è stato coinvolto negli strumenti di gestione della crisi dell’euro, i vari “packs” e il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie, il risultato è stato migliorativo rispetto a quanto proposto dal Consiglio europeo, pur se non ancora ottimale.

È UN’IPOTESI REALISTICA?

Fantapolitica? L’idea che una maggiore integrazione politica sia necessaria per mettere l’area valutaria comune su una base più solida e più democratica è ampiamente diffusa tra le élite e i leader dei paesi dell’euro, anche se poi bisogna capire che cosa ciascuno intenda. Il documento dei quattro presidenti, presentato nell’ottobre del 2012, proponeva già una road map per passare prima all’unione bancaria, poi a quella economica e fiscale e infine all’unione politica. Il processo si è poi bloccato, anche perché per i leader nazionali muoversi in questo campo è politicamente costoso, e l’apparente stabilizzazione dell’area dell’euro riduce la spinta ad agire, nella speranza che la ripresa economica di per sé risolva i problemi. Ma è un’illusione. Il sistema decisionale dell’Unione per le politiche economiche rimane comunque disfunzionale e privo di sufficiente legittimità. Ed è dubbio che la ripresa economica risulti sufficiente a rispondere alle richieste dei cittadini senza un ruolo più attivo da parte delle istituzioni europee nella politica economica, che a sua volta è difficile da ottenere senza una maggiore integrazione politica.
Anche l’argomento che le proposte precedenti non si possono portare avanti perché richiederebbero una riscrittura dei Trattati non ha molto senso nel contesto presente. La riscrittura è già in agenda, perché il referendum inglese costringerà comunque a trovare un nuovo accordo istituzionale tra i paesi dell’euro, che devono necessariamente integrarsi maggiormente se vogliono tenere in piedi l’area monetaria comune, e gli altri, che sono solo interessati al mantenimento di un’area di libero scambio commerciale. La presidenza europea offre all’Italia un’occasione importante per promuovere quest’agenda.

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  1. tobi

    Normalmente le darei ragione sul fatto che il parlamento europeo e un buon contrappeso al consiglio europeo e la commissione e che va rafforzato. ma pochi giorni fa mi sono spaventato a leggere che il PE poco prima di pasqua ha approvato le regole per la tutela degli investitori proposte dalla commissione che daranno un potere eccessivo agli investitori in europa – a discapito della sovranità del popolo europeo. e adesso sarebbero proprio i governi a doverci salvare… (per chi sa il tedesco: http://www.sueddeutsche.de/wirtschaft/geplantes-freihandelsabkommen-ttip-eu-parlament-winkt-sonderrechte-fuer-grosskonzerne-durch-1.1947133 – in Italia non se ne parla. in Germania e Austria é uno degli argomenti più discussi del momento…)

  2. Vincesko

    Citazione: “la bassa qualità dei leader europei e nazionali o i furori teutonici di Angela Merkel”

    Parole che mettono il dito sulla piaga.
    Ottima analisi, del tutto condivisibile, incluse le proposte, ma che merita 2 chiose: 1) la prima, che manca qualunque riferimento all’istituzione europea forse più importante in caso di crisi finanziaria, com’è stata all’origine quella in corso: la BCE; e 2) la seconda, che occorre una maggiore enfasi nel ruolo esercitato in negativo dai protagonisti politici (Merkel, Sarkozy e Barroso, in ambito esterno; Berlusconi e Tremonti, in ambito nazionale) nella gestione di una crisi che per gli effetti è equivalsa ad una guerra con migliaia di morti e feriti. Alla quale se ne potrebbe aggiungere una terza (in parte ventilata nell’articolo): che la Germania, oltre ad avere uno strapotere economico, industriale e commerciale, ha anche uno strapotere nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati.
    1) BCE. La maggiore pecca ascrivibile alla BCE è nel suo statuto costitutivo, ma non soltanto nella lettera dello stesso, bensì anche nella sua interpretazione, che è stata, ed ancora è, dettata precipuamente dalla Germania (non bastava il Governo, ora ci si mette anche la Corte Cost.), secondo un’interpretazione restrittiva in parte contraddetta (nei compiti di crescita economica e dell’occupazione) – ed è una dicotomia grave – dai trattati UE.
    Ho già segnalato, nella discussione in calce all’articolo di Bini Smaghi (http://www.lavoce.info/euro-lira-falso-mito-della sovranita/ ) che recentemente il sito della BCE ha modificato sia il link sia in parte il contenuto delle funzioni, introducendo un periodo che enfatizza il controllo dei prezzi anche asseritamente nei trattati UE
    2) Qualità del leader. In un tornante della storia come quello che stiamo vivendo in particolare dal 2010 (crisi della Grecia), avremmo avuto bisogno di statisti e non di “bottegai”. Il popolo tedesco sembra diventato un Paese di bottegai, governata da una “bottegaia”, presa, come dice il prof. Bordignon, da furori [moralistici].
    Beninteso, io sono convinto che occorre completare i compiti a casa nostra (in particolare, eliminando gli sprechi e varando una corposa imposta patrimoniale sulla metà del decile più ricco delle famiglie [la ricchezza delle famiglie italiane è maggiore di quella tedesca, dato ben noto ai Tedeschi], a bassa propensione al consumo) e, come dice perfidamente ma realisticamente il prof. Monti, che le crisi possono essere positive poiché consentono (ci costringono) di “fare le riforme, ma occorreva – ed occorre – farlo, da una parte, utilizzando al meglio le funzioni
    della BCE e, dall’altra, tenendo come stella polare l’equità e non, come ha fatto il governo Berlusconi-Tremonti, che, a partire dalla crisi greca, ha varato 3 manovre correttive lacrime e sangue (DL 78/2010, DL 98/2011 e DL 138/2011) per un totale cumulato di 267 mld scaricandone il peso in grandissima parte sulle spalle del ceto medio-basso e perfino sui poveri, col taglio feroce della spesa sociale dei Comuni e delle Regioni (-90%).
    Quanti “morti” e “feriti”, che si sarebbero potuto evitare, hanno sulla coscienza Merkel, Sarkozy, Barroso, Berlusconi e
    Tremonti?
    Sì, anche Manuel Barroso (ma bisognerebbe aggiungere pure il Vice Presidente e Commissario all’Economia Olli Rehn), che, al di là dei vincoli dei trattati, è stato forse il peggiore presidente della storia della Commissione Europea, sia per l’asservimento sostanziale al Consiglio Europeo (leggi: Germania), venendo meno al suo compito istituzionale di equilibrare lo strapotere del Consiglio, sia per i risultati.

  3. Troppo potere alla Commissione, alla Bce ecc, poco potere al parlamento europeo, quando Draghi espone al Parlamento, siede in alto, invece quando in America il direttore della Fed siede in basso, in alto vi sono i parlamentari.

  4. Si l’integrazione politica è necessaria, ma il popolo tedesco non la vuole, quindi resta un sogno, la realtà attuale è che abbiamo una moneta senza integrazione fiscale, o aumentiamo il gettito comunitario con le quote Iva dal 1% può essere portata al 10/15%, tale gettito dovrà essere utilizzato per i paesi meridionali; é un semplice sogno per il popolo tedesco, continuerà quindi sempre la politica dei compiti a casa propria.
    Non vedo una via di uscita per l’euro, solo una politica monetaria aggressiva in modo espansivo può salvare tutto, è il minore dei mali.

    • Maurizio Cocucci

      Mi piacerebbe sapere su quali fonti si basano queste considerazioni sul popolo tedesco, popolo che come ogni altro è composto da persone con opinioni diverse.

      • Come sempre il Sig. Cocucci deve essere più attento, proprio in questi giorni la Merkel non rispetta l’art. 17 del Trattato sulla nomina del presidente, afferma che non saranno gli elettori ma i governi e quindi sarà lei stessa che porrà le indicazioni sulla nomina del futuro presidente. Per fortuna che la Merkel non detta le confusioni sulla politica monetaria, comanda tutto lei in Europa.

  5. rob

    Quando in Italia un “politico” è finito magari con un mediocre passato e una basso profilo personale la strada sicura è l’elezione al parlamento europeo. Al di là di qualsiasi ideologia la logica della politica localistica, provinciale, piccola viene esportata in Europa. Quale considerazione possiamo avere anche con tutte le storture che questa Europa ha, dal resto degli stati Europei? Dalla classe dei De Gasperi, degli Einaudi, etc. siamo passati ai Borghezio e a i Razzi. Se non ci rendiamo conto di questo di cosa discutiamo?

  6. Vincesko

    Citazione: “la bassa qualità dei leader europei e nazionali o i furori teutonici di Angela Merkel”
    Parole che mettono il dito nella piaga.
    Ottima analisi, del tutto condivisibile, incluse le proposte, ma che merita due chiose: 1) che manca qualunque riferimento all’istituzione europea forse più importante in caso di crisi finanziaria, com’è stata all’origine quella in corso: la Bce; e 2) che occorre una maggiore enfasi nel ruolo esercitato in negativo dai protagonisti politici (Merkel, Sarkozy e Barroso, in ambito esterno; Berlusconi e Tremonti, in ambito nazionale) nella gestione di una crisi che per gli effetti è equivalsa ad una guerra con migliaia di morti e feriti. Alla quale se ne potrebbe aggiungere una terza (in parte ventilata nell’articolo): che la Germania, oltre ad avere uno strapotere economico, industriale e commerciale, ha anche uno strapotere nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati.
    1) Bce. La maggiore pecca ascrivibile alla Bce è nel suo statuto costitutivo, ma non soltanto nella lettera dello stesso, bensì anche nella sua interpretazione, che è stata, ed ancora è, dettata precipuamente dalla Germania (non bastava il Governo, ora ci si mette anche la Corte Cost.), secondo un’interpretazione restrittiva in parte contraddetta (nei compiti di crescita economica e dell’occupazione) – ed è una dicotomia grave – dai trattati Ue. Ho già segnalato, nella discussione in calce all’articolo di Bini Smaghi (http://www.lavoce.info/euro-lira-falso-mito-della-sovranita/ ) che recentemente il sito della Bce, non credo per caso, ha modificato sia il link sia in parte il contenuto delle funzioni, introducendo un periodo che enfatizza il controllo dei prezzi anche asseritamente nei trattati.
    2) Qualità dei leader. In un tornante della storia come quello che stiamo vivendo in particolare dal 2010 (crisi della Grecia, il cui Pil incideva per il 3% sul totale Ue), avremmo avuto bisogno di statisti lungimiranti e non di “bottegai”. Il popolo tedesco sembra diventato un Paese di bottegai preoccupati soltanto o soprattutto del proprio interesse, governato da una “bottegaia”, figlia di pastore protestante, presa, come dice il prof. Bordignon, da “furori teutonici” [moralistici]. Beninteso, io sono fermamente convinto che occorra completare i compiti a casa nostra (in particolare, eliminando gli sprechi legati all’inefficienza ed alla corruzione e varando una corposa imposta patrimoniale sulla metà del decile più ricco delle famiglie (la ricchezza delle famiglie italiane è maggiore di quella tedesca, dato ben noto ai Tedeschi ed alla Bundesbank), a bassa propensione al consumo) e, come dice un po’ perfidamente ma realisticamente il prof. Monti, che le crisi sono (possono essere) positive poiché consentono (ci costringono) di fare le riforme, ma occorreva – ed occorre – farlo, da una parte, utilizzando al meglio le funzioni della Bce come una vera banca centrale e, dall’altra, avendo come stella polare l’equità e non, come ha fatto il governo Berlusconi-Tremonti, che, a partire dalla crisi greca, ha varato 3 manovre correttive lacrime e sangue (il Dl 78/2010, di cui io sono stato una delle vittime con un mancato introito di circa 20.000 €, quindi parlo con cognizione di causa, il Dl 98/2011 e il DL 138/2011) per un totale cumulato, incluse le leggi di stabilità, di ben 267 mld (cfr. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-16/quattro-anni-manovre-fisco-063630.shtml ), scaricandone il peso in grandissima parte sulle spalle del ceto medio-basso e perfino sui poveri, col taglio feroce della spesa sociale dei Comuni e delle Regioni (-90%). Quante vittime della crisi, che si sarebbero potute evitare, hanno sulla coscienza Merkel, Sarkozy, Barroso, Berlusconi e Tremonti? Sì, anche Manuel Barroso (ma bisognerebbe aggiungere pure il Vice Presidente e Commissario all’Economia Olli Rehn), che, al di là dei vincoli dei trattati, è stato forse il peggiore presidente della storia della Commissione Europea, sia per l’asservimento sostanziale al Consiglio Europeo (leggi: Germania), venendo meno al suo compito istituzionale di equilibrare lo strapotere del Consiglio, sia per i risultati.

  7. Vincesko

    Segnalo:
    L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio
    Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea – Spagna, Italia e Grecia – stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse».
    http://www.lastampa.it/2014/05/13/italia/politica/lex-ministro-usa-funzionari-europei-ci-proposero-di-far-cadere-silvio-2G5osoGKsV8e1rtWqD95RJ/pagina.html

    Chiosa: Nell’autunno del 2011, il governo Berlusconi-Tremonti aveva già varato 3 manovre correttive lacrime e sangue per complessivi 165 mld (non cumulati) ed aveva già fatto 2 riforme pensionistiche (Sacconi, 2010 e 2011), ma per l’opposizione di Bossi non poté (solo) completarle con l’eliminazione completa delle pensioni di anzianità (che colpivano soprattutto il Nord) e l’adeguamento a 66 anni anche delle lavoratrici dipendenti del settore privato (idem come sopra), come era già avvenuto per tutti gli altri, per cui l’Italia era diventata benchmark per l’età di pensionamento per vecchiaia (67 anni entro il 2021, cioè prima della Germania). Il governo commise, però, un errore materiale nella prima lettera all’UE, che ingenerò l’equivoco esiziale, per cui si può dire che Berlusconi, campione di comunicazione, paradossalmente, è caduto anche per un errore di comunicazione.
    Quando arrivò il governo Monti, il risanamento dei conti era stato già fatto, in maniera molto iniqua, per circa 4/5, visto che il nuovo governo varò manovre correttive, molto più eque, per “soli” 62 mld cumulati, su un totale di 330, peraltro adempiendo a misure in parte già decise dal governo precedente (ad esempio, l’aumento dell’IVA).

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